Il nome Giuda era molto comune in Israele. Il suo significato in lingua ebraica vuol dire“che Dio sia lodato”. Purtroppo questo nome non gode più di grande popolarità ed è quasi considerato sinonimo di traditore. Tutti, infatti, conoscono il più famoso Giuda Iscariota, il discepolo di Gesù che lo tradì.

Ma chi è l’autore di questa lettera?
Egli si presenta semplicemente come fratello di Giacomo, probabilmente riferendosi all’esponente della chiesa di Gerusalemme e autore dell’omonima epistola. In tal caso Giuda sarebbe un altro fratello di Gesù. Di questo Giuda i Vangeli non riferiscono altro. Soltanto Giovanni nel suo vangelo riporta che i fratelli del Signore non credevano in lui, ma dopo la resurrezione, come apprendiamo dal libro degli Atti, divennero suoi discepoli.

Lo storico della chiesa Eusebio (III-IV secolo d.C.) ci ha fatto pervenire dei resoconti storici dai quali si può facilmente dedurre che Giuda morì prima dell’anno 96. Questa lettera ha, dunque, una data di composizione che può essere collocata nell’ultimo quarto del I secolo. Non sappiamo a chi fosse indirizzata, perché la definizione dei destinatari al versetto 1 è generica.

Perché Giuda scrisse questa lettera?
Egli stava considerando attentamente la possibilità di scrivere ai destinatari una lettera di edificazione avente come tema la salvezza. Però, la notizia del diffondersi di una eresia che rischiava di corrompere i destinatari costrinse Giuda a cambiare programma e scrivere una lettera di ben altro tenore. I fratelli dovevano essere incoraggiati a combattere un nemico insidioso che si infiltra nella vita della chiesa. Si tratta di certi uomini che Giuda definisce senza mezzi termini “empi”, malvagi. Sostenevano che, una volta diventati cristiani, si fosse liberi di fare tutto ciò che si vuole, in una sorta di permissivismo che contraddice in termini anche la signoria di Cristo sulla vita del cristiano. Pensare che ogni cosa sia permessa perché siamo sotto la grazia, vuol dire negare ogni forma di autorità, pertanto anche ogni autorità divina, e Giuda si sente in dovere di focalizzare un problema così grave affinché i credenti sappiano valutare con intelligenza.
Questa lettera ci ricorda che la verità non deve essere solo annunciata, ma anche difesa contro quelli che la falsificano.

Nei versetti dal 5 al 7 sono citati tre esempi di giudizio per annunciare il castigo che subiranno i falsi insegnanti:

  • Il primo esempio è tratto da Israele liberato dalla schiavitù nel paese d’Egitto: è vero che il popolo fu liberato, tuttavia, alcuni furono giudicati per la loro incredulità e morirono. La lezione che possiamo trarne è che appartenere a un gruppo di cristiani oppure a una determinata chiesa non è garanzia di salvezza. Vivere in mezzo al popolo di Dio non vuol dire essere salvati. La salvezza è un fatto personale.
  • Il secondo esempio chiama in causa gli angeli ribelli, e qui il discorso è analogo: chi vive lontano da Dio, anche se fosse un angelo, non scamperebbe al giudizio divino, come non scamparono gli angeli ribelli.
  • Il terzo esempio è preso dalla storia di Sodoma e Gomorra: l’intercessione di Abramo e la presenza di Lot in una delle due città non furono sufficienti a evitare il giudizio divino. È necessario un ravvedimento, non di massa, ma personale. Is weed legal in italy ? Find out at LegalityLens.com

La lettera chiude con un’invocazione a Dio, l’unico in grado di proteggere la chiesa e garantirne la tenuta fino alla fine dei tempi. Leggiamola nei versetti 24 e 25:

A colui che può preservarvi da ogni caduta e farvi comparire irreprensibili e con gioia davanti alla sua gloria,
al Dio unico, nostro Salvatore per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, siano gloria, maestà, forza e potere prima di tutti i tempi, ora e per tutti i secoli. Amen.

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Prima di scoprire che cosa ha lasciato scritto l'apostolo Pietro, potrebbe essere utile leggere chi egli fosse nell'approfondimento «La scelta di Pietro: pesci o uomini?».

Le due lettere scritte da Pietro nacquero dalla spinta che l'autore ricevette dallo Spirito Santo ad esortare i cristiani sparsi nell’Asia Minore.
La prima lettera fu redatta probabilmente nell’anno 65, cioè nello stesso periodo in cui Nerone accusò i cristiani di aver incendiato Roma e Paolo dovette comparire in giudizio davanti a lui. La missiva portò certamente un gran conforto ai cristiani esposti al martirio in quel periodo.
L’umiltà di Pietro che trapela dallo scritto è un esempio: egli si identifica con i suoi fratelli e li incoraggia a diventare un esempio per gli altri.

Gli argomenti della prima lettera ruotano intorno alla persona e l’opera di Cristo per tutti noi. Pietro ricorda ai lettori che le sofferenze di Gesù sono state profetizzate nei secoli precedenti la sua venuta (1:11) e che la sua sofferenza è culminata nella morte, con la quale egli ha compiuto il sacrificio per i nostri peccati. Tutti coloro che credono in Gesù Cristo e lo ricevono come loro personale Salvatore sono liberati dalla condanna del peccato (2:24). Ma Gesù non è rimasto nella tomba, egli è risorto e attualmente siede alla destra di Dio, il quale, dunque, l’ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria (1:21). La morte e la resurrezione di Cristo sono i due punti principali del Vangelo. Manca, però, ancora un tassello: il ritorno di Cristo. Pietro spiega che il cristiano oggi vive nella gioia perché ha ricevuto immeritatamente il dono della salvezza, e si protende in avanti in attesa dell’apparizione del sommo Pastore (5:4).

Dopo aver toccato l'aspetto fondamentale della buona testimonianza, sia durante i tempi di libertà che in quelli di persecuzione, passa a parlare del ruolo della chiesa. L’uomo convertito non vive un’esistenza solitaria, ma viene inserito nella grande famiglia dei credenti: i cristiani sono delle “pietre viventi” che, sapientemente posate e avvicinate l'una all'altra da Dio, formano una casa spirituale (2:4-6). E ancora, essi sono un “corpo di sacerdoti” i quali offrono sacrifici spirituali (2:5) a Dio per mezzo di Cristo che è il Sommo sacerdote. Infine, i credenti sono, per effetto della nuova nascita, una “stirpe eletta”, “sacerdozio regale”, una “gente santa”, il “popolo di Dio”, che “Dio si è acquistato” (2:9-10). Questa è la chiesa, la quale ha come compito di proclamare le cose grandi che Dio ha fatto: chi crede era nelle tenebre, ma ora si trova nella “sua luce meravigliosa” (2:9).

Passiamo ora alla seconda lettera. Vi troviamo diverse cose che la accomunano alla seconda lettera che Paolo indirizza a Timoteo. Entrambe sono una sorta di testamento lasciato dagli apostoli ai loro eredi spirituali. Paolo è alla vigilia del martirio quando invia le sue ultime istruzioni a Timoteo e anche Pietro sente che la sua vita volge al termine.

L’apostolo desiderava mantenere vivo il ricordo dei suoi insegnamenti anche dopo la sua morte e aveva preso un impegno in tal senso. Leggiamo direttamente le sue parole, al capitolo 1, versetti dal 13 al 16:

E ritengo che sia giusto, finché sono in questa tenda, di tenervi desti con le mie esortazioni.
So che presto dovrò lasciare questa mia tenda, come il Signore nostro Gesù Cristo mi ha fatto sapere.
Ma mi impegnerò affinché dopo la mia partenza abbiate sempre modo di ricordarvi di queste cose.

Infatti vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del nostro Signore Gesù Cristo,
non perché siamo andati dietro a favole abilmente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua maestà
.

Nel secondo capitolo, il discorso dell’apostolo diventa più incisivo sfociando in una forte denuncia del pericolo rappresentato dai falsi insegnanti. Infine, al capitolo terzo, invita i credenti a prepararsi alla prossima venuta del Signore: Cristo tornerà su questa terra e coloro che gli appartengono sono incoraggiati a vivere l'attesa nella pace, lontani dal peccato (3:14). Non ci viene detto né il luogo né chi siano i destinatari di questa lettera. Molti pensano che essa sia stata scritta a Roma come la prima lettera e che i lettori fossero i cristiani dell’Asia Minore.

Prima di concludere vogliamo puntare l'attenzione su una frase scritta da Pietro nella sua 1 lettera, al capitolo 3 v 18:

Cristo ha sofferto una volta per i peccati, lui giusto per gli ingiusti, per condurci a Dio.


Il significato del Vangelo può essere riassunto proprio con queste parole: Cristo ha sofferto per condurci a Dio. Ciò vuol dire che la missione di Cristo era proprio quella di guidarci a Dio: ci ha creati per stare con lui, alla sua presenza, per gioire della sua gioia, per godere della sua gloria. Il peccato ha snaturato ogni cosa e abbiamo rivolto la nostra attenzione, i nostri desideri, alla creatura invece che al Creatore. Attraverso l’opera di Cristo, Dio ha fatto tutto ciò che era necessario per conquistarci, per portarci a sé, darci vita eterna e renderci felici per sempre. Cristo ha allargato le braccia sulla croce per accoglierci alla presenza di Dio.

 

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Il nome Timoteo letteralmente significa “colui che onora Dio”.
Egli era un giovane credente di Listra (Atti degli Apostoli 16:1), nell’odierna Turchia, figlio di un greco e di una donna ebrea. La madre e la nonna di Timoteo lo avevano educato alla conoscenza delle Sacre Scritture sin dalla sua infanzia (2 Timoteo 1:2). Timoteo godeva di una buona reputazione tra i credenti di quella regione, tanto che Paolo nel suo secondo viaggio missionario, ripassando da quelle zone, lo volle come collaboratore. Da allora lavorò fianco a fianco nell’opera del Vangelo con Paolo, il quale, a volte, lo mandava in missione con dei compiti particolari.

La prima lettera a Timoteo riporta che egli ricevette l’incarico di recarsi nella chiesa di Efeso per risolvere dei problemi che vi si erano venuti a creare (1:3).
Anche lui, come Paolo, finì in prigione per la fede ed infatti in Ebrei 13:23 si accenna ad una scarcerazione. La tradizione vuole che sia morto martire in un tumulto popolare ad Efeso, sotto l’imperatore Nerva. La particolare situazione storica dietro queste due lettere non è facile da ricostruire. Sono indicati luoghi geografici dove Paolo si era recato di recente, ed è evidente che poco prima di scriverle, egli aveva viaggiato in Asia, a Creta ed in varie parti d’Europa. Sembra che l'apostolo sia ritornato a Roma nel periodo in cui scriveva la seconda lettera a Timoteo.
È difficile inserire tali dati storici nel racconto riportato nel libro degli Atti degli apostoli, dunque è probabile che i movimenti di Paolo descritti in queste lettere debbano essere collocati dopo gli arresti domiciliari menzionati alla fine del libro degli Atti.
Paolo sembra rendersi conto che il suo tempo su questa terra sta finendo e la sua preoccupazione è dare delle linee guida a coloro che continueranno la sua missione e occuperanno posti di responsabilità. Egli sta valutando la necessità di confermare certe disposizioni per l’organizzazione della chiesa e indicazioni riguardo ai responsabili delle comunità, istruzioni che aveva già trasmesso oralmente ai suoi collaboratori (Tito 1:5).

Nella prima lettera, Paolo manda al suo discepolo una serie di consigli pratici, per aiutarlo a trattare con saggezza i problemi che sorgevano nella comunità cristiana di Efeso. Ad Efeso le conversioni si moltiplicavano e i cristiani si riunivano in centinaia di piccoli gruppi in varie case, sotto la guida di alcuni anziani o vescovi. Sembra che il compito principale di Timoteo fosse quello di preparare gli anziani a svolgere il loro compito di cura pastorale, infatti Paolo fornisce un quadro completo delle responsabilità di un servitore di Dio.
Timoteo viene incoraggiato ad essere un esempio e a mantenere un fermo atteggiamento contro le false dottrine.
Al termine Paolo si sofferma sul malsano desiderio di diventare ricchi e sul pericolo di considerare la religione come fonte di guadagno. «L’amore per il denaro »- scrive - «è la radice di tutti i mali.»

La seconda lettera che Paolo scrisse a Timoteo è anche l'ultima di cui abbiamo testimonianza, cronologicamente parlando (siamo intorno all’anno 65), e possiamo considerarla il suo testamento spirituale. Paolo si avvicina alla fine della sua vita: è a Roma, ma stavolta incatenato come un criminale (2:9). Abbandonato da quasi tutti, attende il martirio (4:6). Nel frattempo, i cristiani si perdono in chiacchiere inutili (2:16), ci sono quelli che si oppongono alla verità del vangelo (3:8), mentre alcuni addirittura se ne allontanano, sotto l’influenza di falsi insegnanti (4:3-4).
Così questi quattro capitoli contengono le commoventi esortazioni di un uomo di Dio, ormai vecchio, che trasmette le sue ultime istruzioni al discepolo Timoteo. Con fervore lo incoraggia a perseverare, a esortare i credenti, ad adempiere al suo ministero di evangelista. Paolo ricorda a Timoteo la grande eredità spirituale ricevuta dalla madre Eunice e dalla nonna Loide. Era stato chiamato ad essere guida per la chiesa, doveva farsi coraggio e lasciare da parte le sue paure. Con una serie di brevi immagini, Timoteo riceve indicazioni da cui trarre ispirazione per forgiare il suo temperamento: per essere come un soldato, un atleta, un agricoltore, uno che sa soffrire, che sopporta la fatica.
In 83 versetti Paolo descrive incisivamente le diverse caratteristiche della vera vita cristiana, rilevando che non si cammina con Cristo senza soffrire, e questo pensiero è come un riflesso dell’ultima esperienza che egli sta vivendo. Lo consola il fatto che può contare su Timoteo che è in grado di prendere il testimone dalla sua mano, quando egli stesso avrà terminato la sua corsa.

A chiusura della lettera, Paolo parla di se stesso, dando l’immagine di un uomo solo, abbandonato dagli amici, desideroso del suo mantello per scaldarsi e di riavere i suoi libri. Desidera avere una presenza amica nell’ora della prova e invita il suo caro Timoteo a raggiungerlo prima che arrivi l’inverno.

C’è un tema che viene ripetuto e può essere usato come chiave di lettura. Per ben quattro volte l’apostolo usa l’espressione “Non avere vergogna ” (1:8, 12, 16, 2:15).

Questa frase è ancora oggi un'esortazione per ciascuno di noi: Cristo non ha avuto vergogna di insegnare, guarire, essere deriso, fustigato, ucciso per salvarci.

Noi siamo pronti a non avere vergogna di Lui?

 

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Situata nella valle del fiume Lico, nell’odierna Turchia, Colosse era una piccola città, meno importante delle vicine Laodicea e Ierapoli. In tutti e tre questi centri si erano costituite delle chiese cristiane (4:13). Paolo aveva attraversato la regione già due volte, nel secondo e nel terzo viaggio missionario (Atti degli Apostoli 16:6, 18:23). Con molta probabilità, la chiesa fu il risultato dell’opera di Paolo a Efeso, distante circa 160 chilometri da Colosse. L’effetto della predicazione di Paolo a Efeso fu di notevole e vasta portata, possiamo dunque immaginare che qualche cittadino di Colosse, avendo udito il Vangelo a Efeso e accettato la fede in Cristo, avesse in seguito fondato una chiesa nella sua città di origine.

La lettera ai Colossesi è stata scritta con tutta probabilità durante la carcerazione romana di Paolo, intorno al 62 d.C.

Epafra, credente e responsabile della chiesa, aveva raggiunto Paolo (1:7-8) per parlargli della situazione che si era creata a Colosse. Diversi riferimenti ci fanno capire che alcuni stavano cercando di persuadere i Colossesi a seguire insegnamenti fuorvianti. Paolo scrive alla chiesa per correggere questi insegnamenti e riportare i credenti a focalizzare sulla persona di Cristo.

I primi capitoli sono dedicati all’esposizione della dottrina cristiana, in cui Cristo è il perno attorno al quale ruota tutto il discorso. Gesù ha il primato in ogni cosa (1:18). La sua preminenza è dovuta al fatto che egli è l’immagine di Dio (1:15) e la pienezza di Dio (1:19). Gesù è il Creatore (1:16) ed è il capo della chiesa (1:18). La sua opera è stata completa: può liberare dal potere delle tenebre (1:13) e può redimerci dal peccato (1:14). Tutte le cose sono riconciliate con Dio mediante il sangue della croce (1:20ss.) e sempre attraverso la croce, le potenze spirituali sono state disarmate (2:15). Cristo inoltre è la vita del credente (3:4).

Qualcuno ha riassunto la lettera ai Colossesi con una parola: pienezza. Infatti Gesù Cristo è pienamente Dio (2:9, 1:15), pienamente glorioso nella sua ricchezza (1:27), pienamente Signore sulla chiesa (1:18, 2:6) e pienamente trionfante sulle potenze del male (2:15). In lui si trovano tutta la pienezza di Dio (1:19) e tutti i tesori della sapienza e della conoscenza (2:3). In lui il Padre ha riconciliato con sé tutte le cose (1:20). Gesù Cristo ha compiuto in modo definitivo e pieno l’opera di salvezza (1:14, 2:13-14). Egli è prima di ogni cosa , sopra ogni cosa, è capo della chiesa, principio della realtà, primogenito di ogni vita (1:15-20). “Egli è prima di ogni cosa e tutte le cose sussistono in lui” (1:17), dunque tutta la realtà è comprensibile alla luce di Cristo.

Nei capitoli seguenti, Paolo rivolge la sua attenzione a questioni di ordine pratico; gli insegnamenti devono avere degli effetti concreti per la vita e le relazioni umane. L’apostolo afferma che una dottrina sana si esprime in una vita santa. Il cristiano è “risorto con Cristo”, vive per Cristo e deve, dunque, manifestare la vita di Cristo in ogni situazione della sua esistenza. Non c’è rottura tra la dottrina e il comportamento, semmai il comportamento è determinato dagli insegnamenti ricevuti. Se la persona e l’opera di Cristo si distingue per la sua pienezza, così è della vita cristiana che Paolo descrive in questa lettera. Essa nasce dall’annuncio della totalità della Parola di Dio (1:25), deve essere ricolma della conoscenza della volontà di Dio (1:9) deve abbondare nel ringraziamento (2:7). Insomma, per dirla come Paolo: “voi avete tutto pienamente in Lui” (2:10). I cristiani sono persone che camminano verso la completezza (4:12). Non sono perfetti, ma sono ricolmi della pienezza di Cristo.

Lo gnosticismo tendeva a separare nettamente lo spirito dal corpo; nell'autentico insegnamento cristiano, invece, tutto l’essere vive la vita nella pienezza di Cristo, non ci sono aspetti della vita in cui Cristo deve essere ritenuto un estraneo. I sentimenti, la famiglia, il lavoro, la chiesa, la politica, il tempo libero, i doveri e quant’altro sono sottomessi alla signoria di Cristo e vissuti pienamente. Questa è la vita del vero cristiano.

Soffermiamoci ora su alcuni brani della Lettera ai Colossesi. Al capitolo 1 Cristo è esaltato in quanto Signore della creazione (1:15-17) e non solo, anche autore della riconciliazione. Ecco le parole di Paolo:

«E voi, che un tempo eravate estranei e nemici a causa dei vostri pensieri e delle vostre opere malvagie,
ora Dio vi ha riconciliati nel corpo della carne di lui, per mezzo della sua morte, per farvi comparire davanti a sé santi, senza difetto e irreprensibili”» 
(1:21-22).

Paolo dice che le nostre opere sono malvagie e ci rendono nemici di Dio. Solo attraverso la morte di Cristo possiamo essere riconciliati. Poi al capitolo 2, versetti 13 e 14, usa un’immagine per chiarire come la morte di Cristo realizza la riconciliazione:

«Voi, che eravate morti nei peccati … voi, dico, Dio ha vivificati con lui, perdonandoci tutti i nostri peccati;
egli ha cancellato il documento a noi ostile, i cui comandamenti ci condannavano, e l'ha tolto di mezzo, inchiodandolo sulla croce.»

Il senso del discorso dell'apostolo Paolo è che non possiamo essere salvati per mezzo delle nostre buone azioni, perché le nostre “buone” azioni sono imperfette. Per usare le parole di un profeta dell’Antico Testamento, agli occhi di Dio sono un “abito sporco” (Isaia 64:6).

Non è così che Dio ci salva. La salvezza non consiste nel far pareggiare i conti delle nostre azioni, non è un calcolo da ragioniere dove le buone opere rappresentano le entrate e le cattive opere rappresentano le uscite. Se il metodo è la valutazione delle nostre azioni, non c’è speranza: chiuderemo sempre in passivo. La speranza però c’è, ed è in Cristo.

Paolo dice che tutte le nostre cattive azioni devono essere cancellate dal documento dove si trovano scritte. La cancellazione è avvenuta quando il documento su cui erano elencate le nostre azioni fu “inchiodato alla croce”. In che modo fu “inchiodata” quella lista che ci condannava? Non fu un foglio di carta ad essere inchiodato alla croce, ma Cristo. Fu così che Egli è diventato il documento di condanna che conteneva le mie azioni cattive. È stato Lui a subire la mia condanna. Ed è stato Lui a donarmi la salvezza. Ecco perché Cristo è l’unica via per riconciliarci con Dio.

 

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